«Che peccato!» è, nella sua assoluta laconicità, quello che mi è piaciuto di più dei «224 autoepitaffi di italiani celebri e non del nostro tempo» raccolti da Eugenio Alberti Schatz e Marco Vaglieri sotto il titolo Meglio qui che in riunione (Rizzoli). Lo ha scritto Augusto Bianchi Rizzi, avvocato, scrittore e commediografo milanese, nonché organizzatore da vent'anni dei Giovedì, celeberrime serate milanesi cui hanno partecipato anche numerosi altri autori del volume.
Tra cui Dario Fo, che batte sul medesimo tasto con un delizioso: «Pecà che sia mort, / era insì vivo da vivo». Anche i curatori hanno partecipato al gioco con i loro «Vedeva le cose con occhio leggero ma non abbastanza» e «In un batter d'occhio». Naturalmente leggere gli epitaffi degli altri mette in moto un meccanismo che è un misto di immedesimazione, di emulazione, ma anche di presa di distanza. Convincono meno, in genere, quelli che si sforzano di tracciare il bilancio complessivo di una vita, anche quando esso appare veritiero. Denunciano la tendenza a prendersi troppo sul serio, anche se si tratta magari di persone cui certo non manca il senso dell'umorismo.
È il caso di Mario Capanna («Visse felice / combattendo. / Mandò a quel paese /chiunque riteneva se lo meritasse») e Giulio Andreotti («Non si ritenne né un nano né un gigante, / lieto di appartenere a una mediocrità aurea»). Non a caso due politici, mi verrebbe da dire. Altri bilanci appaiono assai più leggeri e ironici, come quello di Diego Marani: «Confondere le lingue non bastò a confondere il destino». E questo, io credo, dipende dalla volontà di affrontare in maniera più diretta il tema della morte, della "nostra" morte, non foss'altro che per esorcizzarla, come paiono fare, in maniera assai divertente Elena Loewenthal («Si farà viva lei») e Umberto Eco («Aspetta, aspetta» «Non posso, non posso»).
Comunque non vale criticare gli altri senza cimentarsi con il gioco. A me piacerebbe scriverne uno che sia insieme ironico e "realistico". Una cosa tipo: «Non mi ricordo più. Fatelo voi, se vi va, almeno per un po'». Che ne dite? Forse vi sembrerà troppo enigmatico, ma è un modo di parlare un po' di me cercando di dire qualcosa di generale e di filosofico. Cari lettori, vi invito a fare lo stesso. Perché non mi spedite i vostri autoepitaffi?